Terminal portuale di Alyeska Valdez, Alaska

Sotto il bagliore delle lampade ai vapori di sodio lo scafo della Petromax Arctica, una petroliera del tipo VLCC, Very Large Crude Carrier, era più scuro dell’acqua del Prince William Sound. Erano le nove e mezza di sera, ma a quella latitudine il sole non era ancora tramontato del tutto. Nonostante ci fosse ancora un po’ di luce, le regole imponevano che le lampade montate sulle altissime strutture del terminal restassero sempre accese: avvolgevano la petroliera gettando ombre ossute sulla sconfinata superficie del ponte.

La nave misurava oltre trecento metri di lunghezza, ma ciò che balzava agli occhi era soprattutto la sua larghezza. Con un baglio di quasi cinquanta metri, era larga quanto un palazzo. Il ponte dipinto di rosso sembrava un enorme parcheggio, interrotto solo dai portelli per l’ispezione e da una passerella sopraelevata che si snodava per oltre duecento metri dal castello di poppa fino alla prua arrotondata. Il castello, squadrato e rivestito da pannelli bianchi, si ergeva per quindici metri sopra il livello del ponte. Camminamenti coperti si snodavano su più livelli e le strutture dei ponti erano sospese nel vuoto su entrambi i lati. Il fumaiolo spiccava imponente al centro della sovrastruttura ed era decorato con l’emblema della Petromax Oil, una torre di perforazione stilizzata con le lettere P e O intrecciate. Un faro illuminava dal basso il disegno alto più di sei metri.

A differenza delle navi tradizionali, le superpetroliere, come vengono comunemente chiamate le petroliere VLCC, sfidano tutte le regole dell’architettura. A causa della loro stazza imponente non possono essere costruite, come accade di solito, partendo dalla chiglia e aggiungendo i massicci elementi in acciaio del fasciame come fossero costole ai lati dalla spina dorsale. Vengono costruite a compartimenti indipendenti che vengono saldati in acqua. A detta degli ingegneri sono costruzioni sicure che però rischiano di spaccarsi, se la natura o la follia dell’uomo le sottopongono a uno sforzo eccessivo. Sono creature bastarde, figlie di un mondo assetato di petrolio che non si preoccupa minimamente di come quella sete venga soddisfatta.

La Petromax Arctica era una superpetroliera a doppio scafo dell’ultima generazione, costruita solo tre anni prima e dotata di scrubber a gas inerte e di altri sofisticati dispositivi di sicurezza. Ma per quanto evoluta, un’idea pericolosa rimane comunque tale, perciò il capitano Lyle Hauser trattava la sua nave come una bomba galleggiante con un fusibile saltato.

Hauser era in piedi sul ponte di babordo a cento metri sopra il livello dell’acqua dello stretto, e ascoltava la nave che si stabilizzava mentre il greggio estratto da North Slope si riversava nello scafo compartimentato al ritmo di ventimila barili all’ora. Era lassù da quando, parecchie ore prima, le manichette armate della piattaforma di carico numero tre avevano iniziato a pompare il petrolio. Era stato richiamato dal pensionamento per questo incarico ed era la prima volta che si trovava al comando di una petroliera di quelle dimensioni. Per nessun motivo avrebbe tollerato la minima deviazione dalle procedure. Se questo significava che doveva rimanere sul ponte esterno a tenere d’occhio le torri di carico che pompavano il greggio nella sua nave per tutte le ore che mancavano per completare l’operazione, lo avrebbe fatto. Era un rituale scaramantico che aveva istituito da quando era diventato capitano di navi cisterna, perché sentiva una vocina che veniva da un angolo recondito della sua mente che lo ammoniva che se non avesse tenuto d’occhio le operazioni di carico sarebbe successo un disastro.

Il sistema di carico era a riempimento diretto e l’operazione era interamente controllata da un computer, eliminando così il rischio che il petrolio fuoriuscisse o che la nave perdesse il baricentro, ma Hauser sentiva ugualmente nelle narici l’odore nauseante del greggio e sotto le suole percepiva il gigante che si spostava via via che le pompe trasferivano il petrolio da un compartimento all’altro per mantenere l’Arctica in assetto.

Tirò fuori un walkie-talkie dalla tasca del cappotto a doppio petto. “Riggs, come sono i livelli di ossigeno nelle cisterne?”

“È al cinque per cento dappertutto.”

Sebbene il petrolio sia una delle sostanze maggiormente combustibili, brucia solo in presenza di rapporti ben precisi tra i gas. Basta che la quantità di ossigeno sia troppo elevata o troppo scarsa e non prende neanche fuoco. Dato che il motore principale produceva emissioni dell’ordine del dodici per cento, la Petromax Arctica era dotata di una caldaia Sun Rod, i cui gas di scarico erano ampiamente al di sotto della soglia di infiammabilità del petrolio. Le emissioni della caldaia venivano immesse direttamente nelle cisterne per mantenere un’atmosfera inerte.

“E quanto è il livello del carico delle cisterne a dritta dalla uno alla tre?”

“Ventisette per cento. Sta caricando in modo uniforme, capitano” rispose il primo ufficiale.

Hauser sapeva perfettamente che la sua nave stava caricando in modo uniforme, lo percepiva attraverso le piante dei piedi. La domanda era solo un pretesto per verificare che l’ufficiale Riggs avesse la situazione sotto controllo e fosse attento nelle sue mansioni. Attenta, si corresse Hauser mentalmente. Nonostante la voce ruvida, che nella radio sembrava quasi maschile, il suo numero uno, JoAnn Riggs, era una donna, una veterana con nove anni di esperienza e diplomata all’Accademia della Marina Mercantile del Maine.

Hauser sperava che si sarebbe abituato all’idea di avere una donna sotto il suo comando. Il suo dossier, che aveva letto durante il volo verso l’Alaska, la descriveva come un ufficiale competente e disciplinato. In effetti, aveva trascorso più tempo di lui a bordo di petroliere di quelle dimensioni. Tuttavia c’era qualcosa che non gli piaceva nel modo di fare deciso della Riggs e nell’abitudine che aveva di sbattere continuamente le palpebre. Aveva alle spalle quarantacinque anni di carriera in cui aveva lavorato con centinaia di persone ed era diventato estremamente abile nel valutare il carattere dei collaboratori. Di solito il suo istinto non sbagliava. E JoAnn Riggs non gli piaceva. Non dipendeva dal fatto che era una donna, non gli piaceva come persona.

Tirò fuori un sigaro dalla scatola nera e dorata e rimise il pacchetto nel cappotto di lana pesante, richiudendolo per ripararsi da quel freddo insopportabile.

Con un gesto automatico infilò la mano nella tasca dei pantaloni per prendere l’accendino, uno Zippo decorato con un’incisione regalatogli da sua moglie, che però era chiuso a chiave nel cassetto della sua scrivania in cabina. Aveva smesso di fumare il sigaro oltre un anno prima, ma si portava sempre dietro l’accendino. Era chiuso nel cassetto non tanto come precauzione di sicurezza, ma come deterrente per evitargli di accendere uno dei cinque sigari che masticava quotidianamente.

“Affanculo l’ispettore sanitario e le sue ridicole raccomandazioni” brontolò.

Mentre rifletteva, Hauser si rese conto che non gli importava granché degli altri tre ufficiali che aveva conosciuto al mattino. A causa delle enormi fortune che le petroliere e i loro carichi rappresentavano, erano gli uomini che dovevano ospitare la nave e non il contrario. Accadeva spesso che i nuovi membri dell’equipaggio, compreso il capitano, incontrassero la loro nave in luoghi lontani, come il Golfo Arabo o Città del Capo o l’Alaska. Non c’era tempo per fare la reciproca conoscenza prima che la nave riprendesse il mare. In alcuni casi i marinai a volte venivano depositati con l’elicottero a bordo delle petroliere durante la navigazione, cosa che acuiva il senso di isolamento che avvolgeva quei leviatani.

Era uno dei tanti effetti disumanizzanti del commercio via mare che Hauser aveva osservato per decenni. Il mondo industrializzato si era irrigidito a tal punto sulle leggi della domanda e dell’offerta che le petroliere e le loro cugine, le rinfusiere e le navi porta-container, erano state fagocitate dalla catena di montaggio. Per quelli che le possedevano e per le nuove generazioni che lavoravano con loro, il mondo delle flotte mercantili non suscitava più quell’attrazione emotiva che lo aveva caratterizzato fino a cinquant’anni prima. Erano diventate solo un’altra rotella nell’ingranaggio della grande macchina industriale.

Forse era per quello che a Hauser non andava a genio l’equipaggio che avrebbe dovuto comandare fino a quando la nave non avesse attraccato alla raffineria di El Segundo a nord di Long Beach. Appartenevano alla nuova generazione. Per loro quello che era solo un lavoro, non una missione, come era stato per lui quando si era imbarcato la prima volta a sedici anni. Hauser si chiese se non era troppo severo. Forse aveva ragione sua moglie, non avrebbe dovuto lasciarsi trascinare via dalla sua tranquilla vita da pensionato per quell’ultimo incarico. Anche se fosse riuscito a digerire un primo ufficiale donna, forse il progresso era ormai troppo avanti per lui, e lo aveva lasciato in balìa della nostalgia per le vecchie tradizioni, svanite per sempre.

“E dai, dagli un po’ di tempo. Hanno avuto un paio di giornate impegnative” si disse Hauser ad alta voce. Parlava spesso da solo, o con la sua nave.

Fino a tre giorni prima l’Arctica era stata di proprietà della Petromax Oil, sotto il comando del capitano Harris Albrecht. Successivamente, con una trattativa segreta, la Petromax aveva venduto la flotta di petroliere rimasta, compresa l’Arctica, alla Southern Coasting and Lightering, una misteriosa compagnia di petroliere con sede in Louisiana. Lo stesso giorno in cui la notizia della vendita della nave era giunta a bordo, il capitano Albrecht, comandante della Petromax Arctica per quasi sei anni, aveva avuto un grave incidente.

Hauser non aveva ancora ascoltato tutta la storia, ma sapeva che a causa delle ferite gravi che aveva riportato, Albrecht era stato sbarcato in elicottero dalla nave mentre si trovavano ancora a oltre duecento miglia dal porto, ed era stato portato all’ospedale di Anchorage. Il resoconto succinto della Riggs riferiva che il capitano Albrecht aveva perso una parte dell’avambraccio destro in un incidente con le macchine e che l’arto ferito non era stato recuperato. Hauser era abbastanza solidale da concedere alla Riggs e al resto dell’equipaggio il tempo per riprendersi dal trauma prima di insistere per sapere i dettagli.

La Southern Coasting and Lightering aveva acquistato i contratti dell’equipaggio insieme alla nave, ma siccome non avevano un capitano che prendesse il posto del ferito, Hauser aveva accettato di lasciare la pensione e portare la nave da Valdez alla California. La sua carriera si era svolta su navi più piccole, chiamate product tankers, che trasportavano gasolio, benzina o altri derivati del petrolio lungo la East Coast. Era la prima volta in assoluto che lavorava per la Southern Coasting and Lightering e la prima volta dopo molti anni che comandava una petroliera in quelle acque.

Oltre a voler ricevere un resoconto più dettagliato sull’incidente, Hauser voleva anche sapere il motivo per cui la Petromax Arctica era arrivata a Valdez con diciotto ore di ritardo. Poteva accettare una registrazione incompleta dell’incidente, viste le circostanze, ma non sarebbe passato sopra al fatto che la Riggs aveva condotto la nave in porto con quasi una giornata di ritardo senza spiegazioni. Quel genere di negligenza era imperdonabile, e non era di buon auspicio per l’inizio dell’ultimo incarico del capitano Hauser.

La porta scorrevole in vetro che dava sul ponte si aprì con un sibilo, strappando Hauser dalle sue elucubrazioni. Il primo ufficiale Riggs si avvicinò col suo corpo spigoloso sepolto sotto molteplici strati di maglie e giubbotti. Aveva un viso scarno e ossuto, con occhi piccoli, infossati, di un indefinibile colore slavato. La bocca era tesa, le labbra erano sottili e sbatteva continuamente le palpebre.

“Signore, c’è una chiamata dal centro operativo di controllo.” Anche quando non era distorta dal walkie-talkie la sua voce era brusca e maschile.

“Di cosa si tratta?”

“È arrivato il camion che trasporta le targhe per il nuovo nome della nave.”

Hauser lasciò uscire un sospiro gonfio di frustrazione. Come se quell’incarico non fosse già abbastanza ansiogeno, si aggiungeva il fatto che il nome della nave sarebbe stato cambiato durante la rotta verso la California del Sud. Quando gli avevano annunciato che avrebbe comandato una delle superpetroliere più moderne del mondo si era entusiasmato come quando gli avevano affidato la sua prima nave. Poi però, quando gli avevano comunicato che avrebbero sostituito il nome della nave durante il suo primo viaggio sotto la SC&L, Hauser aveva sentito un tentacolo glaciale attanagliargli le budella. Sapeva che nei loro vent’anni di vita le petroliere cambiavano più nomi del diavolo, poiché venivano comprate e vendute così velocemente che non si faceva nemmeno in tempo ad applicare le targhe a poppa e a prua. L’ultima nave che aveva comandato prima di andare in pensione era stata battezzata e ribattezzata sette volte prima che i suoi ultimi proprietari la mandassero ai demolitori pakistani. Ma non gli piaceva affatto stare a bordo di una nave mentre le veniva cambiato il nome. Qualsiasi marinaio sa che porta male.

Alla notizia del cambio di nome Hauser aveva fatto richiesta alla Southern Coasting di aspettare che la nave arrivasse in porto a Long Beach e che nel frattempo venisse sottoposta alla manutenzione periodica, ma le sue suppliche erano rimaste inascoltate. Il direttore delle operazioni marine della SC&L aveva risposto che era stata la Petromax a chiedere che il nome venisse cambiato durante il trasferimento. Per pura curiosità Hauser, mentre viaggiava verso l’Alaska, aveva chiamato la Petromax e aveva scoperto che invece era stata la SC&L a chiedere quel cambio frettoloso. Si erano persino accollati il costo degli operai e delle targhe di acciaio da cinquanta chili da saldare a poppa, ognuna corrispondente a una lettera per formare il nuovo nome della Arctica: Southern Cross.

Hauser era stato sul punto di rifiutare l’incarico. Dio solo sapeva quanto sua moglie era contraria a che lui se ne andasse a zonzo per il mondo a bordo di una superpetroliera. Il cambio di nome era sgradevole in sé, ma quello che lo faceva infuriare era il fatto che gli avessero mentito. A prescindere da chi aveva dato l’ordine, mentire sulla faccenda era un atteggiamento infantile e irragionevole. Ma sapeva che se non avesse accettato quell’incarico, non ce ne sarebbero stati altri, e lui non vedeva l’ora di mettere di nuovo i piedi su una petroliera e sentirla sua.

“Vuole che li faccia salire a bordo?”

Era così assorto nei suoi pensieri che si era dimenticato che non era solo. “Sì, dica a un paio di marinai di assisterli se hanno bisogno di qualcosa e avvisi la cambusa che ci saranno dei passeggeri in più che viaggeranno con noi.”

“Sì, signore.” La Riggs si voltò e si avviò sul lungo camminamento che portava sul ponte.

Il capitano Hauser guardò la superficie di migliaia di metri quadrati occupata dal terminal di Alyeska. Su una collina sovrastante i cinque attracchi di carico degli enormi terrapieni di sicurezza circondavano una ventina di cisterne per lo stoccaggio del greggio, ciascuna con una capacità di un miliardo e mezzo di litri. Subito sotto c’era l’East Manifold Building, che era il punto di arrivo della condotta Trans-Alaska Pipeline, lunga Ottocento miglia. Tra il Manifold e la nave di Hauser c’erano l’impianto per il trattamento delle acque di zavorra e i bunker per i camion cisterna. Su un lato c’erano il centro operativo di controllo, l’ufficio per le operazioni marine e la sede dell’unità per la gestione delle emergenze. Quest’ultima era stata ampiamente migliorata e ampliata dopo l’incidente della Exxon Valdez che nel 1989 si era incagliata contro la Bligh Reef.

Hauser guardò verso l’accesso principale del terminal e vide un camion a pianale che si avvicinava lasciandosi dietro una scia di gas di scarico. Il lungo pianale era coperto di teloni scuri, e subito dietro il camion avanzava un furgone bianco con i fari accesi che si incrociavano con i fasci di luce dei riflettori montati sulla piattaforma. C’era anche un camion gru che stava attraversando il piazzale, con il lungo braccio che sporgeva come un ariete medievale pronto a dare l’assalto a un antico castello.

Hauser osservò i tre veicoli che procedevano verso la Petromax Arctica, che era il nome con cui ci si sarebbe riferiti alla sua nave fino alla conclusione del viaggio. In pochi istanti gli uomini del furgone e l’operatore della gru si erano organizzati per caricare sulla nave i fasci di targhe d’acciaio. Notò che otto degli uomini erano attrezzati per salire a bordo, con borse e valigie ammassate sull’asfalto del molo, e che solo l’autista del furgone e il camion sarebbero rientrati ad Anchorage.

“Che bisogno c’è di ingaggiare otto uomini per cambiare il nome di una nave?” si chiese Hauser, mentre una raffica di vento lo investì soffiando sui suoi pochi capelli grigi. “E cosa cazzo se ne fanno di tutti quei bagagli? Non siamo mica su una nave da crociera, per Dio.”

Hauser dimenticò una domanda, e successivamente avrebbe rimpianto di non essersela fatta. Come mai quegli otto uomini incaricati di cambiare il nome alla nave si muovevano con la precisione di una squadra militare altamente specializzata?